Politica scolastica: due parole, per chiarezza

Il collega Aron Piezzi, che siede insieme a me nella Commissione formazione e cultura del Gran Consiglio, nel suo articolo “Se l’ideologia viene prima di tutto” apparso il 16 novembre su laRegione, scrive che la politica scolastica del nostro Cantone si fonda eccessivamente su due principi, quello dell’”inclusione” e quello della “differenziazione pedagogica”.

Una filosofia dell’insegnamento, quella del Cantone, che il collega condivide solo in parte e che sarebbe all’origine dell’insoddisfazione di un numero imprecisato di insegnanti. Certo, scrive il collega, se le cose stanno così, la colpa non è tutta del Decs. Non tutta, ma un po’ sì e perciò chiede maggiore “flessibilità” e “realismo” nel concretizzare questi principi.

Ora, io non voglio polemizzare, ma mi preme sgombrare il campo da equivoci e confusioni perché è giusto che la popolazione sappia in che cosa consistono le scelte di politica scolastica; in questo caso, che cosa significa “scuola inclusiva” e “differenziazione pedagogica”. Ne parlo perché conosco il mondo della scuola sin dagli albori (ho insegnato per anni alla scuola media) e perché questo, in ambito scolastico, è il tema del momento in stretta relazione al progetto di superamento dei livelli in matematica e tedesco nella scuola media.

Cominciamo dal principio dell’”inclusione”. Nel contesto dell’organizzazione della scuola dell’obbligo, “includere” significa semplicemente fare in modo che tutti gli allievi, senza discriminazione, partecipino alla vita di classe e all’apprendimento in modo il più possibile autonomo.

La scuola, come elemento portante della società, deve tendere alla creazione di una comunità senza spaccature e culturalmente avanzata sul piano della formazione.

L’inclusività non rappresenta certo un pericolo nella scuola dell’obbligo, in quanto integra tutti e tutte nel processo conoscitivo e non penalizza le capacità di nessuno. L’inclusività dunque abbasserebbe il livello della formazione? Ma non è vero! Lo hanno dimostrato i recenti confronti internazionali e i risultati ottenuti dagli allievi ticinesi negli studi del post obbligo. Alla luce di questi dati, l’affermazione fatta da Aron Piezzi nel suo articolo non è sostenibile.

Quanto alla “differenziazione pedagogica”, essa è lo strumento che ci permette di concretizzare l’inclusione passo per passo. Richiede all’insegnante di organizzare il lavoro degli allievi in modo che sia graduale e personalizzato. Non si scandalizzi, il collega Piezzi, la personalizzazione nell’insegnamento non solo non nuoce a nessuno, ma è anzi fondamentale per insegnare ai giovani ad apprendere in modo indipendente. Si personalizza il lavoro scolastico per dare a tutti, da una parte, la possibilità di raggiungere gli obiettivi di base e, dall’altra, per incentivare ognuno ad andare oltre gli obiettivi stabiliti. E chi, meglio degli insegnanti, può mettere in atto una vera differenziazione pedagogica che contribuisca a far convivere in aula intelligenze diverse con reciproco beneficio? Per tanti anni nella scuola media lo hanno fatto tutti gli insegnanti di italiano, scienze, storia ecc. e sono riusciti a farlo bene. Ciò dimostra che la professionalità degli insegnanti è la chiave di volta per concretizzare una maggiore giustizia culturale e incrementare la qualità della formazione. Chi lavora ha bisogno di fiducia e del giusto riconoscimento.

Articolo di Daniela Pugno-Ghirlanda, apparso su La Regione il 19 novembre

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