Ho intervistato in tre occasioni Michela Murgia, attraverso due modalità diverse. Una volta sola ho avuto il privilegio di avvicinarla “de visu”, a margine di un incontro tenutosi a Bellinzona in occasione del Festival “Storie controvento”, la seconda volta è caduta in occasione del cenacolo da lei svolto presso il Monte Verità (era fresco di stampa il suo romanzo “Chirù”) e l’ultima per approfondire le tematiche legate alla società patriarcale messe a fuoco nel pamphlet “Stai zitta”. In queste ultime due occasioni ho avuto modo di raggiungerla telefonicamente. La terza volta è stato un po’ complicato organizzarsi: Michela era molto impegnata, abbiamo rimandato più volte l’intervista e alla fine, quando finalmente siamo riuscite a stabilire una data, sono sopraggiunti nuovi contrattempi. Nello specifico, uno shitstorm su Facebook e Twitter (letteralmente: una tempesta di cacca) per una sua uscita pubblica legata a qualche tema politico. Non ho in mente l’occasione specifica, quello che ricordo molto bene è che Michela era molto agitata, e, dopo essersi scusata mille volte per aver ritardato l’appuntamento telefonico, si è sfogata un po’ per telefono. Sono rimasta stupita: non credevo che una personalità forte come la sua si lasciasse intaccare e rovinare le giornate da simili miserie social, ma evidentemente ero in errore. A Michela un supplemento per il quale collaborava aveva infatti chiesto di replicare e di togliersi di dosso le accuse (pesanti); da quella telefonata ho intuito le pressioni alle quali la sua figura pubblica, per avere l’ardire di essere coerente con un pensiero femminista e di sinistra, e per voler essere non solo una scrittrice, ma anche un’attivista, era continuamente sottoposta. Insulti, calunnie, body shaming e altre amenità, ogni qual volta osasse mettere in discussione lo status quo. Le stesse cose che mi ha raccontato Laura Boldrini, in occasione di un’altra intervista, forse riconoscendo in me l’empatia giusta per capire la loro posizione, per occhi meno attenti privilegiata e quindi da attaccare. E invece sono privilegi, quelli che una donna che scende nell’agone politico guadagna, che si pagano giorno dopo giorno, a caro prezzo, grazie al clima di odio che grazie ai social subisce un fenomeno di ingigantimento. Lo ha sottolineato anche Roberto Saviano in occasione dei funerali, svoltisi sabato pomeriggio nella Chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo a Roma (il discorso più bello lo ha tenuto Chiara Valerio): Michela soffriva di attacchi di panico e vomito. Un prezzo che hanno pagato – e pagano – molti intellettuali organici, che vogliono andare al di là della scrittura di romanzi. “Se da un mio libro non si origina almeno una manifestazione, non sono soddisfatta”, diceva, a margine dell’uscita di “Stai zitta”. Michela sapeva fornire, con una dialettica precisa e tagliente, armi retoriche nelle mani delle donne, per combattere contro una visione della vita e della società ancora fortemente patriarcale. Lei, insieme ad altri/e, ma soprattutto lei, hanno colmato un vuoto politico, pagandone le conseguenze. Dire che mancherà è poco. Ci ha lasciato un testamento preziosissimo, ricordandoci che ogni azione è politica, che, per riprendere un motto femminista degli anni Settanta, il privato è politico e che non dobbiamo avere paura di prenderci le cose che ci sono state negate per secoli. Questa la lezione più grande. Una lezione d’amore, alla fine, ma un amore che non si arrende e non attende: si va a prendere quello che gli serve per crescere.
Articolo di Laura Di Corcia, candidata al Consiglio nazionale