“Chiedo al Cantone di fare qualcosa per alzare i salari minimi, perché sono davvero troppo bassi”. Questa è la voce di Carla, una donna residente che ha perso il lavoro a causa del dumping salariale praticato dalla sua azienda, che l’ha licenziata per sostituirla con una lavoratrice frontaliera pagata 3’200 franchi al mese. Diversamente da come si scrive spesso in questi casi, Carla non è un nome di fantasia: ha deciso di metterci coraggiosamente la faccia nella trasmissione di venerdì scorso, Patti Chiari, dedicata al dramma dei salari bassi e della precarietà. Desidero ringraziarla e complimentarmi pubblicamente con lei.
L’alto funzionario intervistato ha risposto che “non dipende da noi”: che sono i contratti collettivi a fissare i salari. Ma si è ben guardato dal dire che questa possibilità di deroga è difesa proprio dalla maggioranza del Consiglio di Stato, che di fronte all’iniziativa popolare del Partito socialista depositata nel 2021 – la quale chiede di fissare il salario minimo alla soglia massima delle prestazioni sociali (oltre 4’000 franchi al mese) e di togliere la deroga ai contratti collettivi – ha dato risposta negativa. Questa è l’ipocrisia di una maggioranza politica che da anni chiude gli occhi davanti alle proprie responsabilità. Carla non è vittima di una fatalità o un caso isolato: è la conseguenza delle scelte politiche deleterie compiute dal centro-destra ticinese.
La questione salariale è la vera frattura sociale del nostro Cantone. È il nodo da cui dipendono aspetti fondamentali e strutturali: la perdita del potere d’acquisto, le difficoltà delle finanze pubbliche e perfino l’impoverimento demografico. I salari stagnano, mentre le spese crescono; e la socialità finisce spesso per sostituire la parte di salario che il datore di lavoro non versa, scaricando sulla collettività la propria avidità. Poi gli stessi che comprimono i salari si lamentano dell’aumento della spesa pubblica: ma è il loro stesso modello economico a generarla. Salari bassi significano minor gettito, giovani in fuga dal Ticino, persone che non riescono a ricollocarsi, lavori preclusi ai residenti e beffa finale, aumento delle spese pubbliche.
E mentre il governo intende tagliare sui sussidi, al contempo investe milioni per foraggiare certi settori economici – come nel caso dei 14 milioni per la legge sul turismo o dei 20 milioni destinati alle imprese “innovative” – dimenticando sistematicamente di legare questi sussidi al rispetto dei salari e delle condizioni di lavoro. È la prova di un disinteresse profondo verso chi vive del proprio lavoro.
Ma c’è una speranza. Così come accaduto con il tema delle casse malati, sarà il popolo a poter finalmente esprimere il proprio malcontento. Nei prossimi mesi il Ticino affronterà due votazioni decisive. L’8 marzo 2026 si voterà sull’iniziativa del Movimento per il socialismo che chiede più controlli e una prassi di notifica per tutti i nuovi contratti. E nel giugno 2026 sarà la volta dell’iniziativa del Partito socialista sul salario minimo, che mira a renderlo davvero dignitoso e soprattutto a impedire che venga aggirato attraverso i contratti collettivi.
Il Ps vuole che la questione salariale diventi il tema prioritario del primo semestre del 2026. Perché da essa dipende il futuro del Ticino. È tempo di ridefinire un modello di sviluppo che, a forza di comprimere i salari, ha finito per impoverire tutti – anche moralmente.
Il servizio di Patti Chiari ha avuto il merito di ricordarci una realtà che molti fingono di non vedere. Ma non possiamo e non dobbiamo abituarci allo sfruttamento, alla precarietà, alla sostituzione sistematica di personale residente con lavoratori sottopagati. Carla non chiede carità: chiede giustizia, e lo fa con orgoglio e coraggio. Noi stiamo dalla sua parte.
Articolo di Fabrizio Sirica, La Regione 7 novembre