In queste settimane a Berna si svolge la sessione invernale, e uno dei temi centrali è il budget 2026. Tra i numerosissimi punti in discussione ce n’era uno che avrebbe dovuto unire tutte e tutti: la proposta di aumentare di un milione di franchi i fondi destinati alla lotta contro la violenza di genere, fondi pensati in particolare per l’attuazione della Convenzione di Istanbul nei cantoni. E invece no.
Con il voto decisivo del suo presidente, Pierre-André Page (Udc, Friborgo), il Consiglio nazionale ha respinto questa proposta.
Una decisione incomprensibile – e politicamente grave – se si considera la realtà con cui convivono ogni giorno decine di migliaia di donne nel nostro Paese. In Svizzera una donna su cinque subisce violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Ogni anno la polizia registra decine di migliaia di reati legati alla violenza domestica, nella stragrande maggioranza dei casi con vittime donne. E nel solo 2025 si contano già 27 femminicidi. Ventisette donne uccise. Non numeri astratti, ma vite spezzate. Eppure, mentre questo milione – simbolico e insufficiente, ma necessario – veniva bocciato, altri crediti sono passati (giustamente!) quasi all’unanimità: 3,6 milioni supplementari per la protezione dei greggi di ovini (motivazione: aumento della violenza ai danni delle pecore da parte dei lupi) e 10 milioni per la promozione della vendita di vino. Senza nulla togliere a questi ambiti, fa male vedere che la sicurezza delle donne venga trattata come secondaria.
L’indignazione è stata enorme. Il Ps svizzero, insieme a numerose Ong attive nella difesa dei diritti delle donne, ha lanciato una petizione che ha raccolto 450’000 firme in sole 48 ore. Un numero impressionante, che raramente si vede nella politica federale. I collettivi femministi hanno invece indetto una manifestazione spontanea sulla Piazza federale, dando corpo e voce alla rabbia e alla determinazione di migliaia di persone. Parallelamente, l’associazione Campax ha promosso un’azione che invitava le persone firmatarie a scrivere direttamente ai e alle parlamentari. Una mobilitazione online talmente forte che alcuni parlamentari borghesi si sono lamentati di essere stati “letteralmente inondati” di e-mail, arrivando persino a insinuare che non si trattasse di persone reali, ma di una sorta di cyberattacco. Un’accusa poco credibile – e francamente preoccupante – se pensiamo a quanto spesso il contatto diretto tra eletti ed elettori venga celebrato a parole, salvo poi essere messo in discussione quando diventa scomodo.
La pressione ha però funzionato. La proposta è tornata nei due gremi parlamentari e, per il momento, ha trovato una maggioranza. È la prova che la mobilitazione serve. Che la democrazia vive anche – e soprattutto – quando la popolazione si fa sentire.
Sia chiaro: questo milione supplementare non risolverà da solo il problema della violenza di genere. Non basta, non è sufficiente, non è la fine del percorso. Ma è un primo passo concreto, un segnale politico importante. E soprattutto dimostra una cosa fondamentale: la popolazione ha capito l’urgenza del problema, forse meglio di una parte del parlamento. La forza della mobilitazione femminista sta proprio qui: nel non accettare che la violenza venga normalizzata, minimizzata o rinviata a “tempi finanziari migliori”. Perché per troppe donne, il tempo è già scaduto.
Articolo di Laura Riget, La Regione 15 dicembre