Impone dazi del 31%, ma a pagare è sempre chi lavora

I dazi del 31% imposti dagli Stati Uniti sui prodotti svizzeri stanno facendo tremare i mercati. Trump ha colpito direttamente la Svizzera, ma la vera domanda è: chi pagherà il prezzo di questa crisi? Dietro sigle come Pil, inflazione, export, c’è una realtà concreta: a rimetterci sarà chi vive del proprio salario, paga l’affitto, si sposta coi mezzi pubblici, tira avanti in un contesto sempre più instabile. In Svizzera, oltre l’80% delle persone in età lavorativa è salariato. In Ticino, il dato è simile: circa il 78% della popolazione attiva era costituito da salariati. È questa la vera “classe produttiva” del Paese, spesso ignorata nei discorsi economici. E già prima dei dazi, la situazione era difficile. I salari in Ticino sono i più bassi della Svizzera: nel 2023 il salario mediano era di 5’150 franchi, contro i 6’665 della media nazionale. Nel 2024, il potere d’acquisto si è ulteriormente ridotto a causa dell’aumento dei premi di cassa malati (+10,5% in Ticino) e degli affitti, in costante crescita. Ora, con i dazi, settori chiave dell’export rischiano di rallentare. Meno ordini, meno fatturato, meno lavoro. Il rischio di licenziamenti e precarietà è concreto.

Nel frattempo, in Ticino si prosegue con politiche di austerità. Tra il 2015 e il 2017, oltre 23’000 persone hanno perso i sussidi Ripam; tra il 2016 e il 2018, la spesa per assegni integrativi e di prima infanzia è calata del 65%. Nel 2024, il preventivo cantonale ha previsto nuovi tagli: -2% agli stipendi del pubblico impiego, riduzioni al sostegno alle persone con disabilità, e un’ulteriore sforbiciata ai sussidi Ripam, fermata solo grazie alla mobilitazione popolare. Una piccola vittoria, ma il messaggio è chiaro: in tempo di crisi, si tagliano i diritti sociali. Il 4 aprile, Christian Vitta e Ignazio Cassis hanno annunciato una misura-tampone: il ricorso al lavoro ridotto. Utile, ma insufficiente. Perché mentre si parla di “aiuti alle aziende”, nessuno discute davvero di come sostenere lavoratori precari, madri sole, giovani su chiamata, artigiani sotto pressione.

La vera domanda non è solo come salvare l’export, ma chi vogliamo proteggere. Se la risposta è ancora “i grandi gruppi, sperando che l’effetto cascata arrivi a tutti”, allora abbiamo già perso. Serve una politica pubblica che metta al centro la protezione dei redditi popolari, i servizi essenziali e i diritti sociali. Significa difendere i salari reali, garantire ammortizzatori forti, investire nei servizi pubblici, bloccare l’aumento dei beni essenziali, costruire un piano industriale orientato alla riconversione ecologica e sociale. Se non agiamo subito, le conseguenze non saranno solo economiche. La rabbia cresce nel vuoto delle risposte. E quando le istituzioni sembrano più vicine alle multinazionali che ai cittadini, si apre la strada a populismi e sfiducia. La crisi globale non la controlliamo. Ma possiamo decidere da che parte stare.

Articolo di Oliver Galfetti, Consigliere comunale a Riva San Vitale, apparso su La Regione il 10 aprile

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