Negli scorsi giorni abbiamo assistito all’interessante dibattito sul debito pubblico e sul ruolo dello Stato nei confronti della spesa pubblica. L’ente pubblico è stato paragonato al buon padre di famiglia che non dovrebbe mai spendere più di quanto guadagna. Eppure, il paragone è fuorviante: una famiglia non emette titoli di debito, non può influenzare l’economia e nemmeno ha il compito di mantenere la stabilità sociale. Lo Stato ha responsabilità che rendono il suo ruolo completamente diverso. In molte circostanze la spesa pubblica in deficit non solo è legittima, ma necessaria. Pensiamo alla crisi sanitaria che abbiamo vissuto, alla necessità di investimenti a lungo termine o all’attuale transizione ecologica, per non parlare della sfida legata all’invecchiamento della popolazione. La rigidità contabile dello “spendere solo ciò che si ha” paralizzerebbe l’azione pubblica proprio quando è necessaria.
Nei prossimi anni saremo sempre più spesso confrontati con costi pubblici legati all’evoluzione della società, superiori alle entrate fiscali. La dinamica è semplice e ben nota agli studiosi da tempo: l’invecchiamento della popolazione comporta un aumento della quota di persone che non lavorano e che vivono più a lungo, quindi con maggiori bisogni assistenziali. Norberto Bobbio lo ha espresso con efficacia già negli anni Novanta: “Più vecchi e più anni di durata della vecchiaia: moltiplicate un numero per l’altro e otterrete la cifra che rivela l’eccezionale gravità del problema”. Le entrate fiscali non riusciranno a seguire la crescita dei bisogni proprio perché il Prodotto interno lordo crescerà meno velocemente dell’aumento dei costi, soprattutto sociosanitari. Non accettare questa evidenza e pretendere invece di ridurre la spesa vuol dire ridurre in maniera importante anche la qualità di vita dei propri cittadini, in particolare quelli più fragili.
Il vero paradosso è che chi si lamenta dell’aumento della spesa e del debito contribuisce a generare disavanzi con il taglio delle entrate, tramite sgravi fiscali, aumentando in questo modo anche le disuguaglianze. In molti contesti – basti pensare agli Stati Uniti degli anni Reagan o al Regno Unito di Margaret Thatcher – i tagli fiscali sono stati giustificati con la promessa che avrebbero stimolato crescita e aumentato le entrate a lungo termine. Ma nella realtà hanno semplicemente ridotto le entrate, accresciuto il debito e poi giustificato tagli alla spesa sociale. La stessa dinamica si è ripetuta in Ticino ai tempi della Masoni e anche oggi, in particolar modo negli ultimi 7 anni. Basti pensare che dal 2017 ad oggi sono stati fatti sgravi fiscali per oltre 200 milioni di franchi, privilegiando spesso le fasce più benestanti della popolazione. Questa strategia è anche nota come “starve the beast”: si riducono le entrate pubbliche, si crea un buco di bilancio, e poi si sostiene che “non ci sono soldi” per finanziare servizi pubblici, formazione e politica sociale. È una strategia deliberata per ridimensionare lo Stato, delegittimarlo, e favorire la privatizzazione dei servizi. Chi invoca il “buon padre di famiglia” dopo aver svuotato le casse pubbliche con sgravi fiscali non agisce per prudenza, ma per ideologia.
La responsabilità di uno Stato non è risparmiare bensì sostenere la società, investire nel futuro, far fronte ai cambiamenti (climatici e demografici) e garantire i diritti. Solo uno Stato consapevole del proprio ruolo e responsabile del proprio agire può affrontare in maniera adeguata le sfide demografiche, climatiche ed economiche che ci attendono senza lasciare indietro nessuno. È cinico servirsi dell’alibi del pareggio dei conti per giustificare il non fare nulla. Non è il bilancio in pareggio a costruire una società giusta, ma la capacità di uno Stato di rispondere ai bisogni reali della popolazione.
Articolo di Ivo Durisch apparso su La Regione il 10 maggio 2025