L’opinione pubblicata su questo giornale dal presidente dell’Udc Ticino Piero Marchesi non ci può lasciare indifferenti. Nel suo testo sostiene che i problemi che affliggono la popolazione svizzera (tra cui affitti più costosi, traffico congestionato e persino il degrado del paesaggio) sarebbero causati da un eccesso di immigrazione. Fin qui, nulla di nuovo. Da decenni l’Udc, pur essendo partito di maggioranza a livello federale e avendo importanti responsabilità per la situazione in cui ci troviamo, continua infatti imperterrita ad attribuire agli altri, in questo caso alle straniere e agli stranieri, le colpe dei problemi del nostro Paese. Ciò, invece di affrontare le cause, come gli interessi speculativi, le mire delle lobby o la scarsa volontà politica di ridistribuire meglio la ricchezza per combattere le disuguaglianze.
Questa volta, però, Marchesi è andato oltre: “Anche le scuole sono sotto pressione per l’afflusso di bambini difficili da integrare”. Un’affermazione grave e preoccupante, nel contesto della propaganda dell’iniziativa che chiede di limitare il numero di stranieri nel nostro Paese. Grave, perché lascia intendere – in termini generali – che le bambine e i bambini stranieri, proprio perché stranieri, sono tendenzialmente “difficili” o “difficili da integrare”, e che la loro presenza è causa della pressione nelle scuole. Preoccupante, perché suggerisce indirettamente che liberando le scuole dai bambini stranieri, le sgraveremmo dalla pressione.
Ma è vero che bambine e bambini stranieri sono causa di pressione sulle scuole? No. E non in Ticino. Non in modo sistematico. Non più di molti altri fattori che influiscono sulle scuole e sul corpo docenti, tra cui i tagli alla spesa pubblica dello Stato voluti e strenuamente difesi anche dalla stessa Udc. Tagli che fanno crescere la pressione su direzioni, docenti, allieve e allievi, sottraendo risorse preziose che occorrerebbe invece investire per accompagnare ancor meglio ciascuno in base ai singoli bisogni, nell’interesse di tutta la collettività. Dovremmo forse “alleggerire” la pressione liberando le scuole da tutte le bambine e tutti i bambini “difficili” perché stranieri, con disabilità, bisogni educativi particolari, problemi di comportamento, difficoltà linguistiche o semplicemente perché stanno attraversando un momento difficile in famiglia? Sarebbe meglio, giusto e moralmente ammissibile sollevare la scuola pubblica dall’impegno di seguire bambine e bambini solo perché in qualche modo “diversi”, relegandoli in scuole separate? Sono persuasa che questa ipotetica scuola, fortunatamente contraria alla Legge, sarebbe ben povera cosa, sia in termini di allievi rimasti che in termini di ricchezza e contenuti. Perché la società contemporanea è eterogenea e diversa, e la scuola è uno specchio della società, preziosa proprio anche perché consente alla società di crescere nel rispetto delle diversità, restando unita. L’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani afferma che ogni individuo ha diritto all’istruzione. In nome di questo diritto fondamentale si è costruita la scuola pubblica in Ticino e in Svizzera. Non ovunque però tale diritto è garantito. Come non ricordare in proposito Malala, la ragazza pakistana che ha rischiato la vita e che nel 2014, a 17 anni, è stata insignita del premio Nobel per la pace grazie alla sua lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione. Lo Stato deve fare del diritto all’educazione uno dei suoi principi fondamentali, indipendentemente da dove provengano o da chi siano i bambini e i giovani che risiedono sul territorio.
Si può far capo a tanti argomenti per suffragare una proposta politica di destra, ma utilizzare i bambini, dipingendoli come “difficili da integrare”, deve farci reagire. In nome del diritto all’istruzione. In nome di un Paese che deve assicurare a tutte e a tutti il diritto di andare a scuola: a chi ha avuto la fortuna di nascere o crescere in Svizzera, ma anche a coloro che provengono da altrove, anche da guerre, sopraffazioni o situazioni di povertà. Come scrive l’Unicef, “un bambino ‘sperduto’, sradicato da casa – che sia un rifugiato, migrante o sfollato interno – è prima di tutto un bambino”. Un bambino che ha diritto all’istruzione e a un futuro.
Articolo di Marina Carobbio, apparso sul La Regione il 26 ottobre