Dazi USA definitivamente indefiniti

Il nuovo accordo Svizzera USA sui dazi al 15%, potrebbe come diversi analisti ipotizzano rimanere definitivamente indefinito. Sappiamo che il presidente USA Donald Trump non è nuovo a correzioni delle decisioni che a ritmo elevato produce con il metodo «prova e sbaglia», non sorprenderebbe se, tra qualche mese o anno, tornasse a modificare l’ammontare dei dazi.

Un processo iniziato fin dal suo primo mandato, quando impose gli elevati dazi sull’acciaio cinese e severe restrizioni a Huawei che primeggiava tecnologicamente nel 5G.

Il contesto è noto: negli ultimi vent’anni gli USA hanno trasferito massicciamente capacità produttive in Cina, contribuendo alla crescita manifatturiera e tecnologica di Pechino e rendendosi al contempo sempre più dipendenti da importazioni. Un caso emblematico è IBM, che nel 2004 ha ceduto a Lenovo la divisione PC, compreso il marchio ThinkPad, e nel 2014 anche la divisione server. IBM giustificò la scelta con la volontà di concentrarsi su software e servizi.

Ancora più significativo è il caso Apple, che tra il 1999 e il 2009 ha trasferito in Cina l’intera produzione. Tutto ebbe inizio con il primo iMac, il cui involucro un capolavoro di design industriale non trovò aziende USA in grado di produrlo. Da allora ogni nuovo prodotto – iPod, iPhone, Apple Watch – è diventato «made in China » dando lavoro a mezzo milione di cinesi.

È la logica dell’outsourcing spinta da manager come Jack Welch alla General Electric, basata sulla scorporazione delle attività produttive e l’acquisto esterno di componenti e servizi per ridurre i costi e aumentare i profitti. A questo aggiungiamo l’industria automobilistica USA, a parte Tesla, non particolarmente innovativa, ferma su auto pesanti a benzina soffre da tempo la concorrenza giapponese e europea e oggi elettrica cinese.

Nel ferroviario abbiamo la svizzera StadlerRail che elettrifica la linea ferroviaria nella Silicon Valley producendo gli elettrotreni negli USA con casse dei vagoni in alluminio intere trasportare dall’Europa già saldate perché negli USA mancava personale qualificato. Solo di recente l’azienda ha aperto un reparto per la produzione delle casse in loco, importando metodi di lavorazione svizzeri.

Oggi, con l’eccezione dell’industria bellica e i servizi delle Big Tech, gli USA dipendono dall’estero per una vasta gamma di beni. Con l’Inflation Reduction Act e il CHIPS Act, Biden ha usato agevolazioni fiscali, sussidi e prestiti pubblici, per riportare in patria produzioni strategiche nel green tech e nei semiconduttori, adottando politiche economiche europee che gli USA contestavano come distorsioni al libero mercato.

Trump segue invece la linea protezionista, imponendo dazi a tassi variabili per regolare la bilancia commerciale e forzando investimenti diretti dall’estero.

Dopo decenni di liberismo economico spinto escludendo ingerenze dello stato, lo stesso Stato che lo ha promosso sta chiudendo le frontiere per contenere i danni collaterali che ha prodotto.

Articolo di Bruno Storni, Corriere del Ticino 5 dicembre

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