“Care compagne, cari compagni”: La ley del camino, il discorso di Fabio Pusterla


 

Fabio Pusterla

 

LA LEY DEL CAMINO

 

                                    Discorso per il congresso del Partito Socialista, Arbedo 18 novembre 2018

 

Care compagne, cari compagni,

 

ho pronunciato quattro parole, o meglio due, declinate al femminile e al maschile, e sono già costretto a fermarmi. Queste due parole sono state a lungo, per più di un secolo, una formula ovvia d’apertura, dietro la quale tutti potevano capire una realtà comune e almeno entro certi limiti chiara. Ma oggi è ancora così? Io ne dubito, e penso che questa formula nota a tutti oggi forse ponga qualche problema, e chieda di essere interrogata seriamente. Tutto il mio breve intervento sarà dunque basato sugli interrogativi sollevati da queste due parole così importanti e oggi così incerte.

Tanto per cominciare: ci siamo davvero ancora reciprocamente “cari”?  E cosa vorrebbe dire “cari”? “Aver caro qualcuno” vorrebbe dire, e questo è il significato che la parola porta con sé da secoli, e anzi da millenni, salendo a noi almeno dall’epoca latina, riconoscerne il valore, la preziosità, e provare una forma di affetto, di tenerezza, persino di amore. Da “caro” deriva del resto il concetto importante di “carità”. Allora: è questo che proviamo reciprocamente: un senso di preziosità, di affetto che ci unisce al di là delle differenze e delle divergenze? Una comune carità? Tutti noi sappiamo benissimo che la storia della sinistra è una complessa dialettica di unità e frantumazione; e che, entro certi limiti, proprio questa effervescenza ideologica ha a lungo costituito una grande ricchezza e un grande serbatoio di idee e di energie. Ma in certi momenti storici, di solito contrassegnati da una particolare difficoltà, come quello che stiamo affannosamente vivendo, le divergenze hanno preso il sopravvento; le rivalità oscurato la coscienza della comune carità; le ambizioni individuali o di parte annichilito la dimensione ideale. Il mondo in queste epoche è spazzato da un vento cupo e nero, lo stesso vento di cui ha parlato recentemente Igor Righini in uno suo articolo, e di cui oggi sentiamo la presenza quotidiana, nel piccolo della nostra realtà, ma anche allargando lo sguardo: dal Brasile di Bolsonaro all’Italia di Matteo Salvini, dall’America di Trump alla Turchia di Erdogan, quasi da ogni dove giungono le raffiche gelate di questo vento, e, come nella pagina iniziale del grande romanzo di Emile Zola, Germinale, la strada davanti a noi sembra aprirsi dritta come un molo nel buio accecante delle tenebre. Ma intanto che il vento infuria e le tenebre si infittiscono, cosa fa la sinistra? A volte, come dimentica di sé e di ciò che sta accadendo, litiga, si frantuma, si annulla. Perde di vista la “carità”. Colpa dei gruppuscoli più estremi, si dice allora di solito, che in nome della loro intransigenza  e presunzione di verità assoluta favoriscono la dispersione. Ma una simile spiegazione è insufficiente, e soprattutto ingiusta, perché non considera che la vera forza di un grande movimento di sinistra, di un grande partito di sinistra, sta nella capacità di contenere e accogliere in sé queste divergenze, di non lasciarle esplodere in maniera distruttiva; e questo è possibile solo quando, al di sotto delle contingenze e delle diversità, si mantiene viva e forte una idealità comune, vigorosa e riconoscibile, una forza progettuale che va ben al di là delle scadenze elettorali, delle tattiche e delle preoccupazioni spicciole.

Ma questo ci conduce alla seconda parola: “compagni”. Tutti ne conosciamo la splendida origine, che riconduce alla concreta realtà del “pane”, l’alimento primario della nostra cultura, e ai suoi significati simbolici. Colui con cui spezzo il mio pane è il mio compagno: e l’immagine è così bella e così forte, la parola così ricca di significato evidente, che tutti coloro che la avversano la invidiano anche, e per questo la irridono non appena possono: il disprezzo con cui le destre pronunciano come se fosse un insulto o una parola ridicola il termine “compagni” è l’altra faccia dell’invidia e del timore: perché si sente rimbombare, in questa semplice parola, qualcosa di grande. E tuttavia oggi le cose sono più complicate. L’8 luglio 1974 Pier Paolo Pasolini, che sarebbe stato trucidato nell’autunno dell’anno successivo, scriveva su «Paese sera» un articolo memorabile, in cui rispondeva a certe critiche che gli aveva mosso Italo Calvino. E diceva, Pasolini, che un’epoca della storia umana, lunghissima, che lui riassumeva nell’espressione età del pane era terminata, perché eravamo ormai entrati nell’età della merce. Nell’età del pane, osservava, «gli uomini erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita». Se, come credo, Pasolini aveva ragione, dobbiamo chiederci cosa possa significare la parola “compagno” nell’età della merce, che non è più quella del pane. Dobbiamo chiederci quale possa essere, oggi, il nuovo pane da spezzare tra di noi e con gli altri, perché solo in questo modo potremo continuare ad usare il termine “compagni” senza essere patetici.  Naturalmente non mi illudo di avere la risposta; ma suggerisco di considerare con attenzione l’idea che a dover essere condivisi, oggi, siano soprattutto i diritti. I diritti che già esistono, che sono il frutto di una faticosa conquista del progressismo otto e novecentesco, e che oggi vediamo costantemente minacciati da un vasto progetto di restaurazione volto a indebolire, e talvolta addirittura eliminare questi diritti umani e sociali, cosa che spinge da molto tempo le forze della sinistra su una posizione difensiva e logorante, che rischia di minarne lo slancio, l’inventiva, la creatività. Bisogna senz’altro difendere con forza i diritti esistenti dalla furia del neocapitalismo selvaggio e del suo talvolta inconsapevole braccio armato, il populismo dilagante; ma bisogna anche avere il coraggio di immaginare i diritti che ancora non esistono, quella fetta enorme di giustizia e di equità che ancora non è stata riconosciuta. Per fare questo, io penso che ci si debba spingere verso territori ancora sconosciuti; che si debba avere il coraggio di varcare i confini dei diritti attuali, delle leggi attuali, per esplorare e illuminare ciò che sta oltre. Perché i diritti non sono immobili nel tempo, ma mutano con il mutare delle condizioni, con l’emergere di nuovi soggetti storici, politici, economici. Oltre la soglia della legalità non abita soltanto l’illegalità, bensì anche il nuovo volto dei bisogni, la possibilità di una giustizia sociale che oggi non sa ancora essere pensata. Andare oltre la legalità, in questo senso, significa non accontentarsi di ciò che già esiste; non appiattirsi su posizioni difensive; non credere che l’attività politica sia definita semplicemente dal mantenimento delle posizioni e dalla gestione del potere. Il diritto di avere dei diritti, intitolava alcuni anni or sono Stefano Rodotà la sua ultima grande opera. Sono certo che, ascoltando queste parole, la mente di molti di voi sta pensando ai migranti, ai nuovi diseredati, alle terribili negazioni dei diritti che li concernono, tanto nei luoghi da cui cercano di fuggire tanto in quelli a cui provano ad approdare, con tutti gli ostacoli che conosciamo bene. Ma non si tratta soltanto di questa nuova realtà. Gli studenti che incontro nel mio lavoro a scuola: hanno il diritto di sperare? Di provare a essere felici? Di superare il disagio, il senso di catastrofe familiare ed esistenziale che spesso li accompagna? Di credere nel futuro? Gli anziani: oltre ai diritti già esistenti hanno anche quello di sentirsi utili e ascoltati, non emarginati e ghettizzati? E come concretizzarlo? Gli apostoli che spezzavano il pane con Cristo durante l’ultima cena era tutti uomini; le donne forse erano di là, a lavare i piatti. Che diritti hanno le donne? In uno scrittore svizzero di lingua tedesca che certo non simpatizzava per il socialismo, Meinrad Inglin, trovo un po’ a sorpresa questa domanda: «Ma noi, chi siamo noi alla fin fine? Siamo degni, siamo all’altezza di questo spazio nel quale abitiamo?». Inglin si riferiva al Canton Svitto, ma anche noi potremmo porci lo stesso interrogativo; siamo degni dello spazio, del territorio in cui abitiamo? Troveremo la forza di arginarne lo scempio e la rovina, o ci siamo già rassegnati ad accettarne la trasformazione in parcheggio e supermarket, in merce da consumare in fretta tra nuove passerelle sui laghi e rinnovata svendita delle acque? Solo mantenendo vive e brucianti queste domande inquietanti potremo sperare di sentirci ancora reciprocamente cari, ancora compagni di qualcosa e per qualcosa; partecipi di un’avventura che è infinitamente più importante di una votazione o di una percentuale. In una lettera del 30 novembre 1969 un poeta italiano, Giovanni Giudici, scriveva ad un altro poeta, Franco Fortini, comunista e traduttore di Brecht. Gli diceva: «Ai livelli del temporale, penso che la “compassione” sia ancora una delle virtù meno indegne di ciò che la nostra specie vorrebbe essere». Compassione: cioè il patire, il provare passione, insieme; compagni: cioè il condividere insieme il pane. Perché, come ho letto una volta in un romanzo di Cormac Mc Carthy, «el compartir es la ley del camino».

E allora, care compagne e cari compagni, adesso provo ad usarle di nuovo, queste due parole, con tutta la cautela e con tutta la speranza di cui posso disporre; per augurare buon lavoro a questo congresso, ma soprattutto per augurare a tutti di saper andare oltre, oltre i regolamenti, oltre le contrapposizioni inutili e persino oltre le preoccupazioni elettorali, per ritrovare lo slancio, l’idealità e la forza. La ley del camino.

 

 

 

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