Reagan non abita qui

Nel suo discorso inaugurale del 1981, Ronald Reagan dichiarava: «Nella crisi attuale, il governo non è la soluzione ai nostri problemi; il governo è il problema», aggiungendo che «le difficoltà che stiamo attraversando sono proporzionate al livello di intervento e di ingerenza nelle nostre vite derivante dalla crescita inutile ed eccessiva dello Stato». Una visione restrittiva dell’intervento pubblico che avrebbe influenzato profondamente le politiche economiche per decenni, promuovendo l’idea che efficienza e prosperità dipendano da un arretramento dello Stato e da una maggiore fiducia nel mercato.
La Svizzera ha seguito un percorso diverso. La combinazione tra federalismo, stabilità istituzionale, certezza del diritto e collaborazione tra formazione e industria ha permesso di coniugare per anni crescita economica, innovazione e coesione sociale. La struttura federale responsabilizza Cantoni e Comuni, favorendo efficacia e prossimità, mentre il debito pubblico rimane tra i più bassi al mondo in rapporto al Pil.
Autonomia economica, solidarietà interregionale e stabilità sociale sono da sempre il marchio di fabbrica del modello svizzero. Il discorso del presidente della Camera di commercio tenuto in occasione dell’assemblea annuale si richiama, invece, al pensiero reaganiano – più efficienza, più responsabilità, meno intervento pubblico. Una simile dottrina non è né necessaria né compatibile con il modello elvetico, fondato sul consenso e sull’equilibrio tra interessi diversi. Le ricette reaganiane, basate sulla riduzione del ruolo dello Stato e sulla liberalizzazione spinta, non hanno mai trovato terreno fertile in Svizzera e difficilmente potrebbero produrre risultati positivi – ammesso che altrove ne abbiano prodotti.
Tuttavia, il Canton Ticino si trova oggi in una condizione di crescente e allarmante fragilità strutturale: finanze pubbliche sotto pressione, precariato e disuguaglianze economiche in costante aumento. L’1,6% della popolazione detiene ormai il 50% della ricchezza complessiva, mentre la metà dei cittadini deve accontentarsi dell’1,3%. È un paradosso che un Cantone dove il numero di persone particolarmente facoltose è triplicato in pochi anni, abbia un piano finanziario che prevede disavanzi strutturali superiori ai 700 milioni di franchi – segno di un equilibrio sociale ed economico sempre più debole. Il presidente della Camera di commercio, invece di affrontare con lucidità le cause strutturali della crisi, preferisce cercare un capro espiatorio, puntando il dito contro lo Stato e contro l’aumento della spesa pubblica, pur di non assumersi le proprie responsabilità e di non guardare in faccia la realtà. Troppo comodo, e profondamente populista. Forse si dimentica che negli ultimi sette anni sono stati concessi sgravi fiscali per almeno 200 milioni di franchi – risorse che, in larga parte, sono finite proprio nelle tasche di chi oggi sostiene i modelli liberisti. Si dimentica altrettanto volentieri che il salario mediano ticinese è circa il 20% inferiore rispetto alla media nazionale e che il rischio di povertà è il più alto tra tutti i Cantoni svizzeri. Una combinazione che genera una doppia vulnerabilità: da un lato una base fiscale debole, dall’altro una crescente dipendenza dai servizi e dalle prestazioni sociali. In altre parole: meno entrate e più costi.
In un contesto simile, smantellare o ridimensionare i servizi pubblici in nome di un presunto alleggerimento della spesa non sarebbe una riforma, ma un errore strategico. Significherebbe compromettere non solo la stabilità sociale, ma anche la competitività economica del Cantone. Lo Stato non è un semplice centro di costo: è un partner essenziale dell’economia reale, che garantisce infrastrutture, trasporti, sicurezza, giustizia e, soprattutto, un sistema formativo di eccellenza. Proprio la formazione duale – fiore all’occhiello del modello svizzero – rappresenta uno dei legami più virtuosi tra pubblico e privato, assicurando alle imprese personale qualificato e favorendo l’inserimento professionale dei giovani. Senza questi pilastri, l’industria ticinese non potrebbe crescere né competere sul lungo periodo. Il presidente della Camera di commercio propone di limitare i compiti dello Stato all’essenziale – infrastrutture, trasporti, sicurezza e formazione – riducendo drasticamente la sanità pubblica e la socialità. Troppo comodo mantenere saldi solo quei settori che servono direttamente all’industria, privatizzando o scaricando sulla collettività tutto il resto. «Solo allora faremo la nostra parte», chiosa: un’affermazione che meriterebbe perlomeno di essere spiegata. Cosa vorrebbe fare, esattamente, l’economia per contribuire al risanamento finanziario del Cantone? Forse riassorbire i posti di lavoro pubblici che propone di tagliare – ammesso e non concesso che siano davvero troppi – ma con quali condizioni salariali e prospettive? Si tratta per lo più di impieghi qualificati, spesso a formazione universitaria, figure che l’economia ticinese già oggi fatica ad attirare e che sovente recluta oltre frontiera. O forse vuole fare la sua parte proponendo di riconsiderare lo sgravio del 38% dell’imposta sull’utile aziendale, entrato in vigore nel 2025, che ha ulteriormente ridotto il gettito cantonale? Invece di fare ideologia con ricette vecchie, servono politiche coraggiose, pragmatiche e responsabili, capaci di guardare alla realtà ticinese per quella che è, quella di un Cantone che ha bisogno di risorse, e non per quella che si vorrebbe. Il tempo degli slogan è finito: oggi più che mai, il Ticino ha bisogno di coesione, non di divisione. Ognuno deve fare la propria parte – subito – per ricostruire fiducia, equità e sostenibilità, restituendo allo Stato e all’economia il loro ruolo complementare al servizio della collettività.arti

Articolo di Ivo Durisch, capogruppo PS in Gran Consiglio, apparso il 23 ottobre su LaRegione

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