Ma di cosa ci si stupisce?

Che il presidente Usa sia un buzzurro lo si è capito da un bel pezzo, ma siccome gli americani lo hanno rivoluto alla Casa Bianca, per un po’ toccherà anche a noi sopportarne le tragiche gesta. Incurante della logica, dell’aritmetica primaria, della necessità di trovare argomenti di una certa solidità a sostegno delle sue tesi, di una visione che possa minimamente chiamarsi politica, nei confronti della Svizzera si è mosso come si muovono certi affaristi immobiliari, per i quali il prezzo non è dato dal valore del palazzo che si vende, ma dalla capacità di pagare del compratore. E quindi, siccome la Svizzera è ricca, che cacci i soldi, punto e basta. Trump incarna e combina due elementi sciagurati: il capitalismo più brutale, quello secondo il quale il grosso prende tutto e al diavolo i perdenti, e il nazionalismo più becero, quello per il quale “prima i nostri”, gli altri s’arrangino.

La storia non è naturalmente finita qui, le trattative in qualche modo continuano con la processione a Washington con il cappello in mano (Trump aveva descritto il quadretto con un’immagine ben più volgare), probabilmente avremo sospensioni, poi tonfi, poi sorrisi di circostanza, qualche partitella a golf, poi mezzi accordi e nuove giravolte. Mi auguro che le conseguenze di questa situazione si possano in qualche modo mitigare, cercando anche di fare alleanza con altri, ma non facciamoci illusioni: la brutalità del personaggio non cambierà, perché è connotata dalla sua natura, immaginare di farlo ragionare è inutile, perché egli basa il suo agire solo sul rapporto di forza, spiegargli le nostre particolarità non servirà a nulla, perché ‘America first’ non contempla l’ascolto degli argomenti altrui.

Gli amici nostrani di questo figuro, quelli che hanno manifestato “goduria” alla sua elezione, ora si dicono delusi. Ma delusi da cosa? Di scoprire che nell’applicazione di un modello che prevede pochi vincenti e tanti perdenti anche la Svizzera rischi di finire nella seconda categoria? Di scoprire che nell’applicazione del primanostrismo, in questo caso americano, gli altri, tra cui noi, non meritano considerazione? “Deleng din don”, direbbe un mio amico solito a imitare il suono delle campane quando qualcuno un po’ tardo dà segno di capire quello che è già chiaro ai più.

Mentre si ballerà questa triste danza per i prossimi due o tre anni, qualche ragionamento sul catastrofico modello nazionalista e brutalcapitalista sarebbe utile che lo si facesse anche alle nostre latitudini. Perché al di là dei personaggi più o meno presentabili che lo incarnano, negli Stati Uniti, in Argentina, nei Paesi europei che cercano di applicarlo e all’interno delle forze politiche, anche elvetiche, che lo propugnano, è il suo Dna che porta con sé conflitti, precarietà, insicurezza, negazione del diritto, egoismo, indifferenza verso gli altri, e che di converso impedisce di lavorare su prospettive che considerino l’insieme degli interessi che caratterizzano le nostre società complesse. Quello che sta succedendo non è l’uscita di testa di un momento di un sol uomo, ma è il prodotto intrinsecamente connesso con questo modello d’involuzione civile, sociale ed economica, che solo una solida maggioranza democratica può rimettere nell’angolo nero da cui proviene. E prima lo si farà, meglio sarà per tutti.

Articolo di Manuele Bertoli apparso su La Regione il 19 agosto

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