Da mesi per gli abitanti dell’Alta Vallemaggia è stata la colonna sonora della loro vita. Rumori, spesso qualificati come molesti, sono in questo caso segni di ricostruzione di tanti manufatti: a ogni colpo di ruspa un piccolo passo verso la normalità, anche se tutti sanno che nulla sarà come prima, a partire dalla paura che la bestia possa risvegliarsi.
Lodevole l’iniziativa del Bollettino comunale di Lavizzara che a Natale ha drenato in un unico contenitore tante preziose testimonianze cariche di emotività: uno spaccato di quanto successo e una radiografia dell’animo umano di fronte agli eventi traumatici dell’alluvione. Pure l’iniziativa editoriale di Dadò con il libro Vallemaggia devastata si pone nella stessa ottica del ricordare quanto avvenuto in quella terribile notte e nel periodo successivo. Un patrimonio documentaristico foriero di indicazioni utili per il futuro che, in montagna più che altrove, non può essere scevro da eventi traumatici, per cui sarà forse possibile farci trovare più pronti.
L’aver dato voce a tante persone di estrazione socioeconomica e ruoli professionali diversi ha originato una raccolta dettagliata di quanto successo e di come si è cercato di contenere i disagi emersi, tra cui sicurezza delle persone, ripristino dei collegamenti viari e della rete elettrica, comunicazioni via radio e telefonia, approvvigionamento di viveri e dell’acqua potabile, verifica delle cause del disastro, priorità nel ritorno alla normalità in generale e coordinamento degli aiuti. Un esercizio in scala 1:1 che dovrebbe aver insegnato molto a tutti gli attori coinvolti.
Rimarginare le ferite è per ogni organismo un processo normale e necessario, ma ciò basterà veramente per ridare vigore alla Valle? Le notevoli risorse investite nella ricostruzione non arrischiano di anestetizzare la progettualità e lo sviluppo della comunità colpita? Se già si nicchia sulle spese di ricostruzione, che ne sarà dei progetti già abbozzati (funivia Fusio-Ambrì, innalzamento della diga del Sambuco, Centro balneare di Bignasco, collegamento con la Formazza) e altri ancora?
Le risorse che spero confluiranno verso l’Alta Vallemaggia vanno però messe in circuito su un doppio asse: quello della ricostruzione d’un canto, ma soprattutto quello rivolto alla progettualità e allo sviluppo dall’altro: un sano strabismo in ossequio a uno dei principi che caratterizzano il montanaro con un occhio rivolto alla meta e l’altro attento a dove appoggiare il piede per non inciampare.
Se l’asse sviluppo verrà sacrificato sull’altare della ricostruzione, la Valle resterà ingessata a giugno 2024 e, considerato che già prima dell’alluvione non figurava tra le zone più floride della Svizzera, tra un decennio, visto che il resto del mondo nel frattempo non starà a guardare, si ritroverà a ripartire da meno 10, per cui vien quasi automatico pensare che oltre al danno (alluvione) ci saranno anche le beffe (mancato sviluppo).
L’alluvione ha devastato gli strati più profondi dell’animo umano degli abitanti che in poche ore hanno visto sbriciolati certezze ed equilibri nelle relazioni con il proprio contesto di vita. Le comunità di montagna sanno assumere questi rischi e stanno lentamente ritrovando un po’ di serenità, voglia di fare, piacere di esserci, ma la forza di reagire (mai venuta meno) va sostenuta dall’esterno con segnali forti che devono arrivare in primis dalle entità istituzionali più importanti, quali Confederazione e Cantone che, senza troppi indugi, devono allocare le risorse (perché no qualche briciola della manna della Banca Nazionale) in base alle necessità e alle contingenze venutesi a creare in una logica di solidarietà e di equità di trattamento tra le regioni che compongono la Svizzera. La montagna ha bisogno di molto in questa occasione, ma nel contempo rappresenta una ricchezza inestimabile nella varietà e nella complementarità del territorio nazionale.
Articolo di Mario Donati, Broglio, apparso su La Regione il 24 gennaio