Pubblicità sessista

Chi si occupa di cultura e linguaggio, sa, almeno da Barthes in avanti, che questa operazione di disamina non può essere condotta semplicemente chiudendosi nella famosa torre d’avorio (ne approfitto con un velocissimo fuori tema per sottolineare che ormai il lavoro culturale è sottopagato e poco ritenuto, quindi di avorio n’è rimasto ben poco), ma uscendo e analizzando anche i prodotti meno sofisticati. Fra questi spicca la pubblicità. Guy Debord stesso in un testo famosissimo, ‘La società dello spettacolo’, suggeriva la potenza delle immagini per plasmare le menti. E nello stesso Medioevo, le immagini affrescate avevano la funzione di veicolare un messaggio di propaganda religiosa per coloro i quali non erano in grado di leggere. “La pittura, per quanto silenziosa su una parete, è in grado di parlare e di recare grandissimo giovamento”, scriveva nel IV secolo Gregorio Nisseno. Le immagini parlano, e molto spesso vi è un messaggio implicito che passa attraverso una superficie che non sembra dire proprio quello, e invece. Il significante è collegato a un significato, esattamente come in linguistica. E quindi un mazzo di fiori rossi significa passione. Un uomo che a letto con una donna sogna un’automobile (pubblicità di una nota azienda automobilistica girata qualche anno fa) reca come messaggio che la donna e la macchina stanno su un piano equiparabile, quello dell’oggetto dei desideri. In una società ancora plasmata sui desideri e le ambizioni degli uomini, sarà spesso la donna la mancanza da colmare, l’oggetto. E quindi abbondano donne che servono le fantasie degli uomini, da quelle erotiche a quelle di dominio. Nei panni, quindi, di bambole sexy o appiattite nel ruolo di donna di casa/madre. Desiderate, e mai desideranti. Qui sta il punto. Qui la questione diventa politica. Perché se in una democrazia tutte le cittadine e tutti i cittadini devono avere pari diritti, nella stessa non si possono tollerare messaggi che pervasivamente sostengano una società gerarchica, non paritaria, appiattiti su schemi che vogliamo superare. Non si tratta di cancel culture. Si tratta di equità.

Articolo di Laura di Corcia, PS Mendrisiotto, pubblicato su laRegione del 21 gennaio

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