Durante la prossima sessione parlamentare sarà discussa una mozione sulla pubblicità sessista, razzista e omofoba. Del tema me ne sono occupata in diverse occasioni quando ero presidente della Commissione consultiva per le pari opportunità. L’attuale proposta chiede che sia introdotta la vigilanza contro la pubblicità sessista, proposta a più riprese dal 2015, attraverso il controllo degli impianti pubblicitari di competenza del Cantone (i manifesti stradali, per intenderci) inserendo un ulteriore articolo nella Legge sugli impianti pubblicitari. Il rapporto di maggioranza a firma dei deputati Filippini e Censi si lancia in disquisizioni “filosofiche” per contrastare la proposta che lasciano perlomeno basite per superficialità e confusione, accusando di censura le persone che pongono la questione degli stereotipi sessisti nelle pubblicità, stereotipi che altre leggi federali vogliono contrastare.
Quindi precisiamo. Non si tratta di agire secondo le modalità della cosiddetta “cancel culture” che utilizza forme di pressione organizzata per far rimuovere persone, libri, o altro considerati discriminatori rispetto a una minoranza. Non si tratta neppure di “politicamente corretto”, accusa reiterata verso chi ritiene doveroso utilizzare concetti e parole inclusive, capaci di descrivere e comprendere la complessità del reale.
Era il 25 novembre 2018, Philipp Plein con gusto macabro promuoveva i suoi prodotti con una pubblicità online riproducendo un femminicidio. Come Coordinamento donne della sinistra ci siamo mobilitate con un presidio e una petizione online che ha raccolto più di 3000 firme in 48 ore indirizzate al Comune di Lugano e al Consiglio di Stato. Nulla si mosse. La libertà di commercio è sacra, probabilmente più sacra del corpo delle donne.
Nel Messaggio del Consiglio di Stato e nel rapporto di maggioranza si invita a rivolgersi alla Commissione svizzera per la Lealtà (CSL). Peccato che il tempo medio di esposizione della cartellonistica sia di quattro settimane, e le risposte arrivino decisamente dopo e non abbiano alcun effetto pratico o sanzionatorio.
Nell’anno in cui Philipp Plein pubblicizzava con un femminicidio i suoi prodotti, il Parlamento svizzero adottò la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica che invita gli Stati a “promuovere i cambiamenti nei comportamenti socioculturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini (art. 12)”.
Come fare se nello spazio visivo della nostra quotidianità ci confrontiamo con pubblicità – che non cerchiamo – che ci propongono pregiudizi e stereotipi?
La Spagna nella sua Legge organica sulle misure di Protezione contro la violenza di genere dedica il capitolo II al settore della pubblicità e dei mezzi di comunicazione, quale strumento indispensabile di prevenzione, vietando in modo esplicito la “pubblicità che utilizza l’immagine della donna in modo vessatorio o discriminatorio”. Nella Convenzione di Istanbul chiede che si incoraggi “il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità”.
Purtroppo la pubblicità è pervasiva in ogni contesto di vita offline e online, ma al momento agire secondo le richieste della mozione è l’unico mezzo per limitare l’inquinamento visivo sessista a cui siamo sottoposti. È un piccolo passo per dire chiaramente che la dignità della vita umana vale più di un prodotto in vendita.
Articolo di Pepita Vera Conforti, Coordinamento donne della sinistra, pubblicato su laRegione del 16 gennaio